In questi ultimi tempi si fa un gran parlare di femminicidio, violenza sulle donne, stalking, cyberbullismo. Quest’ultimo, in particolare, sembra essere un fenomeno ancora sconosciuto ai più, gli stessi che ragionano forse come se fossero dentro un episodio di Stranger things, dove internet è il sottosopra.
Eh no, cari miei, troppo facile e minimizzante pensarla così. Non tutto quello che si legge su internet corrisponde alla realtà, è vero, ma non è nemmeno un mondo immaginario in cui puoi fare quello che vuoi: ciò che viene scritto sulle pagine del web ci resta per sempre, per questa ragione occorre fare molta attenzione.
Veniamo alla notizia del giorno: Diletta Leotta, conduttrice di programmi sportivi su SKY, sale sul palco dell’Ariston durante il Festival di Sanremo per raccontare la sua testimonianza. Qualche mese fa, i suoi scatti privati sono stati rubati da un hacker e resi pubblici proprio su internet; poco importa che fosse nuda o con la tuta da sci: ha subito una violazione della privacy. Dovendo parlare necessariamente per luoghi comuni, fin troppo veritieri, bisogna dire che la solidarietà femminile non esiste. Ecco infatti che, puntuali, arrivano piogge di tweet dal sapore retrò che criticano il modo in cui è vestita, veicolando ancora una volta un messaggio fuorviante («vestita così cosa pretendi», «sei mezza nuda, non puoi farmi la morale», «se l’è cercata», ecc. ecc.).
In un periodo storico in cui fioccano gruppi segreti su Facebook dove si inneggia allo stupro virtuale o dove quasi ci si sente in colpa per osare una foto del profilo più sensuale del solito (che spinge a commenti a volte inopportuni), perché il retaggio culturale che ci portiamo dietro – ahimè – è quello, ci mancavano solo le Caterina Balivo di turno, che accusano altre colleghe di essere eccessivamente egocentriche, vanitose o, semplicemente, belle?
Il passo successivo è scoprire che queste stesse soubrette moralizzatrici hanno riversato su internet decine di fotografie pseudo-artistiche, legittimando con certe uscite infelici gli invertebrati che sono iscritti a questi gruppi a farne incetta per i loro intenti violenti, il tutto perché – magari – indossano solo un reggiseno in pizzo o una camicetta un po’ trasparente.
Che cosa abbiamo imparato da questa storia? Che pensarla come le nostre bisnonne, oggi, non aiuta e che se sei un personaggio pubblico devi stare attento il doppio a quello che scrivi. Se dovessimo poi entrare nello specifico del mezzo, abbiamo appreso che assumere un consulente di comunicazione che eviti certi scivoloni sarebbe manna dal cielo per la carriera e per l’immagine che vogliamo dare sul “webbe”.
[P.s. Sono le 12:01 del giorno dopo e un tweet di scuse da parte di Caterina Balivo non è ancora arrivato.]